domenica 18 febbraio 2024

Porzia che si ferisce alla coscia

 

Porzia che si ferisce alla coscia di Elisabetta Sirani

Il bel dipinto di Elisabetta Sirani ci introduce alla storia di Porzia, nobildonna romana celebre per il suo carattere forte e determinato. Una vicenda a metà tra storia e leggenda...

Ma prima mi concedo un accenno riguardo Elisabetta Sirani, la talentuosa artista bolognese morta a soli 27 anni, il cui ultimo dipinto è stato proprio quello dedicato a Porzia ("Porzia che si ferisce alla coscia"). Intorno alla tragica dipartita della pittrice, c'è un mistero mai risolto con diverse persone indagate ma mai accusate formalmente del suo omicidio. La Sirani è stata la prima donna in Europa a gestire una scuola femminile di pittura.

Tornando al dipinto, chi era Porzia e perché si è trafitta una gamba? Lei era figlia di Catone l'Uticense, una figura definita da amici e nemici, di somma rettitudine, un uomo di grande coerenza, incorruttibile, imparziale, campione delle massime virtù romane e non solo. L'Uticense era un celebre oratore, seguace della filosofia stoica, pronipote di Catone il Censore. Fu un fiero e leale oppositore di Giulio Cesare, non accettando mai la presa di potere da parte del suo rivale. Dinanzi all'umiliazione della grazia, preferì il suicidio come ultima difesa di quei valori repubblicani di cui si ere sempre fatto portatore in tutta la sua carriera politica. Cesare aveva sempre ammirato la tenacia di Catone l'Uticense ma non accettò mai di considerarlo un martire della Repubblica. Inoltre nel 45 a.C., appena un anno dopo la morte di Catone, la figlia di lui, la nostra Porzia, andò in sposa a Bruto, suscitando scandalo in tutta Roma. Una situazione che Cesare non accettò mai.

Porzia nacque nel 70 a.C. e sposò in seconde nozze Marco Giunio Bruto, suo primo cugino e appunto "figlioccio" di Giulio Cesare. L'uomo divorziò dalla sua prima moglie, Claudia, per stare con Porzia. I due erano sinceramente innamorati. Inoltre Bruto era un grande ammiratore di Catone l'Uticense, di cui condivideva i valori dello stoicismo ed evidentemente quelli repubblicani. Porzia, da sempre molto presente nella vita politica del marito, si accorse del turbamento dell'uomo a ridosso delle Idi di Marzo del 44 a.C.; provò con le buone a parlarne con Bruto ma non ricevendo risposte convincenti, si rese protagonista di un gesto eclatante. 

Come ho già accennato, Porzia era innamoratissima di Bruto. Per dimostrargli la sua totale lealtà, si procurò una ferita alla coscia, talmente profonda da procurarle una copiosa perdita di sangue e un forte dolore. In questo modo convinse il marito a metterla al corrente della congiura che da lì a poco avrebbe eliminato Giulio Cesare. Porcia si suicidò inghiottendo dei carboni ardenti poco prima della Battaglia di Filippi, nella quale sarebbe poi morto l'amato Bruto.

La vicenda di Porzia, raccontata da autori quali Plutarco, Cicerone e Cassio Dione, si pone a metà tra realtà e leggenda. Di lei ci rimane il dipinto immortale della Sirani, con la coraggiosa fanciulla romana che, determinata, si ferisce alla gamba, incurante delle tre figure sullo sfondo. Si ritiene che la pittrice abbia voluto rappresentare se stessa proprio nel celebre quadro...

A cura di Andrea Contorni.

Bibliografia e note:
  • "Marco Bruto", Plutarco.
  • "Epistulae ad Brutum", Cicerone.
  • "Storia Romana", Cassio Dione.


sabato 17 febbraio 2024

La spada di Damocle, la leggenda

La spada di Damocle, dipinto di Richard Westall del 1812

Il ritrattista inglese Richard Westall (1765-1836) ci ha donato questo suggestivo dipinto dal titolo "The Sword of Damocles".

L'opera riprende la leggenda, appartenente al patrimonio dei miti greci, della spada di Damocle. L'autore fu probabilmente Timeo di Tauromenio. Questi nacque nel 350 a.C. come figlio di Andromaco, tiranno di Tauromenio (l'antica Taormina). Quando la città cadde sotto Siracusa, Timeo fu costretto all'esilio ad Atene. Rientrò in Sicilia dopo circa cinquant'anni in Grecia, morendo nel 260 a.C. proprio a Siracusa. Timeo fu un importante storico. Le sue "Storie" in 38 libri trattavano la storia dell'Occidente greco dalle origini mitiche alla morte del tiranno siracusano Agatocle nel 289 a.C.. Fu Cicerone a riprendere nelle sue "Tusculanae disputationes", il racconto della spada di Damocle contenuto nell'opera di Timeo di Tauromenio, nella sezione, ad oggi perduta, dedicata alla Sicilia. La vicenda fu citata anche da altri autori romani quali Orazio e Boezio.

Quanti di noi hanno affermato: «Ho la spada di Damocle sulla testa!», almeno una volta nella vita? L'espressione, molto usata in italiano, indica un pericolo imminente, una grave preoccupazione, qualcosa di brutto che potrebbe accadere da un momento all'altro. Il detto si lega appunto alla leggenda del povero Damocle che alcuni ritengono un cortigiano di Dionigi I di Siracusa, altri un principe ospite del tiranno, altri ancora un suo prigioniero.

In ogni caso questo Damocle era solito ricordare a Dionigi (430 -367 a.C.), quanto fosse fortunato ad essere un re, vivendo nel lusso, amministrando il potere dal suo grande palazzo e contando ogni giorno ricchezze inesauribili. Dionigi in tutta risposta, gli offrì di prendere il suo posto per un solo giorno. Durante il sontuoso banchetto serale, Damocle sedeva sul trono del tiranno godendo dei cibi e degli sfarzi della corte. A un certo punto il malcapitato alzò gli occhi al soffitto. Con sgomento si accorse di una spada che pendeva sopra la sua testa, legata a un esile crine di cavallo. Terrorizzato scappò dal trono, maledicendo lo scambio di ruoli che aveva tanto desiderato.

Dionigi, con tale espediente, aveva fatto comprendere al giovane, quanto fosse difficile l'esistenza di un tiranno proprio per le insidie e i pericoli che giornalmente mettevano a rischio la sua vita. Da qui l'espressione "Avere la spada di Damocle" che ha "viaggiato" nei secoli per giungere fino a noi...

A cura di Andrea Contorni

venerdì 16 febbraio 2024

L'Incubus, il demone romano degli incubi e del sonno inquieto

L'Incubus, il demone romano degli incubi


Quante volte al mattino abbiamo detto "Stanotte ho fatto un incubo" facendo riferimento a una notte tormentata da oscure visioni nel sonno?

Il termine "incubo" che ora indica semplicemente un brutto sogno, deriva dal latino "incubare" (giacere sopra) e si riferiva al terribile Incubus, una sorta di fantasma, demone o spirito maligno di natura maschile che di notte giaceva sulle dormienti opprimendole Degli Incubus ne parlano Plinio il Vecchio, Petronio e Macrobio. Nella cultura romana, venivano ritenuti responsabili del terrore notturno, della paralisi ipnagogica e di gravidanze non volute.

Questo perché gli Incubus erano anche fauni o divinità rurali che di notte potevano accoppiarsi con la malcapitata di turno. Questo almeno è quanto riferiscono fonti tarde. Ricordo che i fauni, allo stesso modo dei satiri e dei sileni, erano strettamente connessi a divinità quali Pan e Dioniso, espressioni della forza dirompente e riproduttiva della Natura e degli aspetti più selvaggi e anche violenti dell'essenza umana. Per approfondire tutto quanto riguarda fauni, satiri, sileni e papposileni, vi invito a leggere il mio approfondimento su "Il Sapere Storico".

L'aspetto erotico dell'Incubus è confermato anche dalla sua versione femminile, il Succubus, una creatura attraente e lasciva che di notte sedurrebbe gli uomini. Era tradizione ritenere di essere stati visitati da un Succubus quando si sognava qualcosa di "particolare". Nel Medioevo la figura dell'Incubus si evolve in qualcosa di davvero malvagio, quasi una trasposizione notturna del diavolo, in grado di soffocare la sua vittima nel sonno dopo avergli aspirato tutta la vitalità.

L'Incubus è presente in forme diverse ma con le stesse prerogative in quasi tutte le culture europee ed extraeuropee, basti pensare al Giappone con il demone Kanashibari. È un elemento del mito che è giunto fino ai giorni nostri, trovando terreno fertile nel folclore regionale. Interessanti in tal senso sono le Pantafiche abruzzesi e marchigiane, vecchie streghe o grossi gatti neri che impedirebbero al dormiente di respirare.

A cura di Andrea Contorni


giovedì 15 febbraio 2024

Il mito greco di Leda e il Cigno

Leda e il Cigno, il mito greco


Leda e il cigno è un mito greco complesso per via delle molte versioni discordanti e uno dei ripresi in arte da personaggi del calibro di Michelangelo Buonarroti, Tintoretto e Leonardo da Vinci.

Questa leggenda è importante per le conseguenze dell'incontro tra la bellissima Leda e il cigno che in realtà era Zeus sotto mentite spoglie. Come al solito, esistono diverse varianti del mito ma io vi racconto quella più comune e universalmente accettata. Mentre Leda camminava sulle rive del fiume Eurota, fu avvicinata da un meraviglioso cigno che la donna accolse tra le sue braccia. I due finirono per stare insieme: c'è chi dice che il padre degli déi rimase in forma animale, chi invece sostiene che alla fine si palesò per chi realmente fosse. Alcuni artisti hanno "immaginato" l'atto sessuale tra i due. Mi sovviene la scultura del francese Auguste Clésinger, realizzata nel 1864 e conservata presso il Museo di Piccardia di Amiens. Essa immortala il momento stesso in cui il rapporto sta per essere consumato in una scena dal forte erotismo. Prima di lui, Michelangelo aveva rappresentato la stessa situazione in una tavola perduta di cui rimangono oggi alcune copie e varianti.

Tornando al mito, quella stessa notte, Leda giacque anche con Tindaro, suo marito, re di Sparta. Qualche giorno dopo, la donna depose due uova: da uno nacquero Elena e Polluce, figli di Zeus, mentre dall'altro spuntarono Clitemnestra e Castore, figli di Tindaro. Questa leggenda. con molti dei suoi personaggi, si pone alla base della guerra di Troia, capiamone il perché...

Tindaro per un certo periodo ospitò a corte due celebri principi micenei spodestati: i fratelli Agamennone e Menelao. Angosciato dalla bellezza folgorante di Elena, ormai giunta in età da matrimonio, Tindaro accettò una delle tante presunte idee geniali di Ulisse. Fece giurare con atto solenne a tutti i pretendenti alla mano della meravigliosa fanciulla, di correre in caso di necessità in soccorso del prescelto alle nozze, senza obiezioni e per qualunque motivo. Forse doveva essere un modo per far desistere i tanti candidati, in realtà tutti i re della Grecia accettarono, pur di avere Elena. Sta di fatto che quando la meravigliosa donna fu rapita da Paride, Menelao si appellò al vecchio giuramento per avere alleati in guerra. E tutta la Grecia mosse contro Troia.

Alla base delle diatribe amorose che coinvolsero Elena, allo stesso modo delle sorelle Timandra e Clitemnestra, c'era un errore, l'ennesimo, di Tindaro, un tipo che purtroppo non ne combinava una giusta. Il sovrano infatti non onorò Afrodite durante un rito. In pratica fece offerte a tutte le divinità, dimenticandosi proprio della dea della bellezza. E Afrodite, come ringraziamento per tale onta, maledisse tutta la prole femminile di Tindaro, condannando le ragazze ad essere adultere, a sposarsi varie volte e a subire le intemperanze dei propri mariti. E fu così che ElenaTimandra e Clitemnestra condivisero un destino infelice, soffrendo le pene d'amore e i tradimenti dei consorti.

Tanto per fare un punto riguardo questa maledizione. Di Elena sappiamo tutto. Clitemnestra perse il primo marito e il figlioletto per colpa di Agamennone che l'aveva costretta a sposarlo con la forza, dopo aver eliminato i due. Durante il conflitto troiano, la regina di Micene fece coppia con Egisto, il cugino del re. Quando Agamennone tornò a casa portandosi dietro come concubina Cassandra,  Clitemnestra, con la complicità dell'amante, si sbarazzò di entrambi. La donna era erosa dall'odio per il marito. Al dolore per la perdita della prima famiglia, si era aggiunto quello per il sacrificio della povera e amata figlia, Ifigenia. La presenza di Cassandra a corte, schiava dell'Atride, rappresentò la classica goccia che fece traboccare il vaso.

Clitemnestra fu infine uccisa da suo figlio, Oreste, che in tal modo vendicò la morte del proprio padre. Sorte simile ma meno tragica toccò all'altra sorella, Timandra, regina di Tegea e poi di Dulichio, la quale, anima in pena, ebbe una vita amorosa turbolenta e senza pace.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • "I Miti Greci" di Robert Graves. Longanesi Editore (2018).