domenica 18 febbraio 2024

Porzia che si ferisce alla coscia

 

Porzia che si ferisce alla coscia di Elisabetta Sirani

Il bel dipinto di Elisabetta Sirani ci introduce alla storia di Porzia, nobildonna romana celebre per il suo carattere forte e determinato. Una vicenda a metà tra storia e leggenda...

Ma prima mi concedo un accenno riguardo Elisabetta Sirani, la talentuosa artista bolognese morta a soli 27 anni, il cui ultimo dipinto è stato proprio quello dedicato a Porzia ("Porzia che si ferisce alla coscia"). Intorno alla tragica dipartita della pittrice, c'è un mistero mai risolto con diverse persone indagate ma mai accusate formalmente del suo omicidio. La Sirani è stata la prima donna in Europa a gestire una scuola femminile di pittura.

Tornando al dipinto, chi era Porzia e perché si è trafitta una gamba? Lei era figlia di Catone l'Uticense, una figura definita da amici e nemici, di somma rettitudine, un uomo di grande coerenza, incorruttibile, imparziale, campione delle massime virtù romane e non solo. L'Uticense era un celebre oratore, seguace della filosofia stoica, pronipote di Catone il Censore. Fu un fiero e leale oppositore di Giulio Cesare, non accettando mai la presa di potere da parte del suo rivale. Dinanzi all'umiliazione della grazia, preferì il suicidio come ultima difesa di quei valori repubblicani di cui si ere sempre fatto portatore in tutta la sua carriera politica. Cesare aveva sempre ammirato la tenacia di Catone l'Uticense ma non accettò mai di considerarlo un martire della Repubblica. Inoltre nel 45 a.C., appena un anno dopo la morte di Catone, la figlia di lui, la nostra Porzia, andò in sposa a Bruto, suscitando scandalo in tutta Roma. Una situazione che Cesare non accettò mai.

Porzia nacque nel 70 a.C. e sposò in seconde nozze Marco Giunio Bruto, suo primo cugino e appunto "figlioccio" di Giulio Cesare. L'uomo divorziò dalla sua prima moglie, Claudia, per stare con Porzia. I due erano sinceramente innamorati. Inoltre Bruto era un grande ammiratore di Catone l'Uticense, di cui condivideva i valori dello stoicismo ed evidentemente quelli repubblicani. Porzia, da sempre molto presente nella vita politica del marito, si accorse del turbamento dell'uomo a ridosso delle Idi di Marzo del 44 a.C.; provò con le buone a parlarne con Bruto ma non ricevendo risposte convincenti, si rese protagonista di un gesto eclatante. 

Come ho già accennato, Porzia era innamoratissima di Bruto. Per dimostrargli la sua totale lealtà, si procurò una ferita alla coscia, talmente profonda da procurarle una copiosa perdita di sangue e un forte dolore. In questo modo convinse il marito a metterla al corrente della congiura che da lì a poco avrebbe eliminato Giulio Cesare. Porcia si suicidò inghiottendo dei carboni ardenti poco prima della Battaglia di Filippi, nella quale sarebbe poi morto l'amato Bruto.

La vicenda di Porzia, raccontata da autori quali Plutarco, Cicerone e Cassio Dione, si pone a metà tra realtà e leggenda. Di lei ci rimane il dipinto immortale della Sirani, con la coraggiosa fanciulla romana che, determinata, si ferisce alla gamba, incurante delle tre figure sullo sfondo. Si ritiene che la pittrice abbia voluto rappresentare se stessa proprio nel celebre quadro...

A cura di Andrea Contorni.

Bibliografia e note:
  • "Marco Bruto", Plutarco.
  • "Epistulae ad Brutum", Cicerone.
  • "Storia Romana", Cassio Dione.


sabato 17 febbraio 2024

La spada di Damocle, la leggenda

La spada di Damocle, dipinto di Richard Westall del 1812

Il ritrattista inglese Richard Westall (1765-1836) ci ha donato questo suggestivo dipinto dal titolo "The Sword of Damocles".

L'opera riprende la leggenda, appartenente al patrimonio dei miti greci, della spada di Damocle. L'autore fu probabilmente Timeo di Tauromenio. Questi nacque nel 350 a.C. come figlio di Andromaco, tiranno di Tauromenio (l'antica Taormina). Quando la città cadde sotto Siracusa, Timeo fu costretto all'esilio ad Atene. Rientrò in Sicilia dopo circa cinquant'anni in Grecia, morendo nel 260 a.C. proprio a Siracusa. Timeo fu un importante storico. Le sue "Storie" in 38 libri trattavano la storia dell'Occidente greco dalle origini mitiche alla morte del tiranno siracusano Agatocle nel 289 a.C.. Fu Cicerone a riprendere nelle sue "Tusculanae disputationes", il racconto della spada di Damocle contenuto nell'opera di Timeo di Tauromenio, nella sezione, ad oggi perduta, dedicata alla Sicilia. La vicenda fu citata anche da altri autori romani quali Orazio e Boezio.

Quanti di noi hanno affermato: «Ho la spada di Damocle sulla testa!», almeno una volta nella vita? L'espressione, molto usata in italiano, indica un pericolo imminente, una grave preoccupazione, qualcosa di brutto che potrebbe accadere da un momento all'altro. Il detto si lega appunto alla leggenda del povero Damocle che alcuni ritengono un cortigiano di Dionigi I di Siracusa, altri un principe ospite del tiranno, altri ancora un suo prigioniero.

In ogni caso questo Damocle era solito ricordare a Dionigi (430 -367 a.C.), quanto fosse fortunato ad essere un re, vivendo nel lusso, amministrando il potere dal suo grande palazzo e contando ogni giorno ricchezze inesauribili. Dionigi in tutta risposta, gli offrì di prendere il suo posto per un solo giorno. Durante il sontuoso banchetto serale, Damocle sedeva sul trono del tiranno godendo dei cibi e degli sfarzi della corte. A un certo punto il malcapitato alzò gli occhi al soffitto. Con sgomento si accorse di una spada che pendeva sopra la sua testa, legata a un esile crine di cavallo. Terrorizzato scappò dal trono, maledicendo lo scambio di ruoli che aveva tanto desiderato.

Dionigi, con tale espediente, aveva fatto comprendere al giovane, quanto fosse difficile l'esistenza di un tiranno proprio per le insidie e i pericoli che giornalmente mettevano a rischio la sua vita. Da qui l'espressione "Avere la spada di Damocle" che ha "viaggiato" nei secoli per giungere fino a noi...

A cura di Andrea Contorni

venerdì 16 febbraio 2024

L'Incubus, il demone romano degli incubi e del sonno inquieto

L'Incubus, il demone romano degli incubi


Quante volte al mattino abbiamo detto "Stanotte ho fatto un incubo" facendo riferimento a una notte tormentata da oscure visioni nel sonno?

Il termine "incubo" che ora indica semplicemente un brutto sogno, deriva dal latino "incubare" (giacere sopra) e si riferiva al terribile Incubus, una sorta di fantasma, demone o spirito maligno di natura maschile che di notte giaceva sulle dormienti opprimendole Degli Incubus ne parlano Plinio il Vecchio, Petronio e Macrobio. Nella cultura romana, venivano ritenuti responsabili del terrore notturno, della paralisi ipnagogica e di gravidanze non volute.

Questo perché gli Incubus erano anche fauni o divinità rurali che di notte potevano accoppiarsi con la malcapitata di turno. Questo almeno è quanto riferiscono fonti tarde. Ricordo che i fauni, allo stesso modo dei satiri e dei sileni, erano strettamente connessi a divinità quali Pan e Dioniso, espressioni della forza dirompente e riproduttiva della Natura e degli aspetti più selvaggi e anche violenti dell'essenza umana. Per approfondire tutto quanto riguarda fauni, satiri, sileni e papposileni, vi invito a leggere il mio approfondimento su "Il Sapere Storico".

L'aspetto erotico dell'Incubus è confermato anche dalla sua versione femminile, il Succubus, una creatura attraente e lasciva che di notte sedurrebbe gli uomini. Era tradizione ritenere di essere stati visitati da un Succubus quando si sognava qualcosa di "particolare". Nel Medioevo la figura dell'Incubus si evolve in qualcosa di davvero malvagio, quasi una trasposizione notturna del diavolo, in grado di soffocare la sua vittima nel sonno dopo avergli aspirato tutta la vitalità.

L'Incubus è presente in forme diverse ma con le stesse prerogative in quasi tutte le culture europee ed extraeuropee, basti pensare al Giappone con il demone Kanashibari. È un elemento del mito che è giunto fino ai giorni nostri, trovando terreno fertile nel folclore regionale. Interessanti in tal senso sono le Pantafiche abruzzesi e marchigiane, vecchie streghe o grossi gatti neri che impedirebbero al dormiente di respirare.

A cura di Andrea Contorni


giovedì 15 febbraio 2024

Il mito greco di Leda e il Cigno

Leda e il Cigno, il mito greco


Leda e il cigno è un mito greco complesso per via delle molte versioni discordanti e uno dei ripresi in arte da personaggi del calibro di Michelangelo Buonarroti, Tintoretto e Leonardo da Vinci.

Questa leggenda è importante per le conseguenze dell'incontro tra la bellissima Leda e il cigno che in realtà era Zeus sotto mentite spoglie. Come al solito, esistono diverse varianti del mito ma io vi racconto quella più comune e universalmente accettata. Mentre Leda camminava sulle rive del fiume Eurota, fu avvicinata da un meraviglioso cigno che la donna accolse tra le sue braccia. I due finirono per stare insieme: c'è chi dice che il padre degli déi rimase in forma animale, chi invece sostiene che alla fine si palesò per chi realmente fosse. Alcuni artisti hanno "immaginato" l'atto sessuale tra i due. Mi sovviene la scultura del francese Auguste Clésinger, realizzata nel 1864 e conservata presso il Museo di Piccardia di Amiens. Essa immortala il momento stesso in cui il rapporto sta per essere consumato in una scena dal forte erotismo. Prima di lui, Michelangelo aveva rappresentato la stessa situazione in una tavola perduta di cui rimangono oggi alcune copie e varianti.

Tornando al mito, quella stessa notte, Leda giacque anche con Tindaro, suo marito, re di Sparta. Qualche giorno dopo, la donna depose due uova: da uno nacquero Elena e Polluce, figli di Zeus, mentre dall'altro spuntarono Clitemnestra e Castore, figli di Tindaro. Questa leggenda. con molti dei suoi personaggi, si pone alla base della guerra di Troia, capiamone il perché...

Tindaro per un certo periodo ospitò a corte due celebri principi micenei spodestati: i fratelli Agamennone e Menelao. Angosciato dalla bellezza folgorante di Elena, ormai giunta in età da matrimonio, Tindaro accettò una delle tante presunte idee geniali di Ulisse. Fece giurare con atto solenne a tutti i pretendenti alla mano della meravigliosa fanciulla, di correre in caso di necessità in soccorso del prescelto alle nozze, senza obiezioni e per qualunque motivo. Forse doveva essere un modo per far desistere i tanti candidati, in realtà tutti i re della Grecia accettarono, pur di avere Elena. Sta di fatto che quando la meravigliosa donna fu rapita da Paride, Menelao si appellò al vecchio giuramento per avere alleati in guerra. E tutta la Grecia mosse contro Troia.

Alla base delle diatribe amorose che coinvolsero Elena, allo stesso modo delle sorelle Timandra e Clitemnestra, c'era un errore, l'ennesimo, di Tindaro, un tipo che purtroppo non ne combinava una giusta. Il sovrano infatti non onorò Afrodite durante un rito. In pratica fece offerte a tutte le divinità, dimenticandosi proprio della dea della bellezza. E Afrodite, come ringraziamento per tale onta, maledisse tutta la prole femminile di Tindaro, condannando le ragazze ad essere adultere, a sposarsi varie volte e a subire le intemperanze dei propri mariti. E fu così che ElenaTimandra e Clitemnestra condivisero un destino infelice, soffrendo le pene d'amore e i tradimenti dei consorti.

Tanto per fare un punto riguardo questa maledizione. Di Elena sappiamo tutto. Clitemnestra perse il primo marito e il figlioletto per colpa di Agamennone che l'aveva costretta a sposarlo con la forza, dopo aver eliminato i due. Durante il conflitto troiano, la regina di Micene fece coppia con Egisto, il cugino del re. Quando Agamennone tornò a casa portandosi dietro come concubina Cassandra,  Clitemnestra, con la complicità dell'amante, si sbarazzò di entrambi. La donna era erosa dall'odio per il marito. Al dolore per la perdita della prima famiglia, si era aggiunto quello per il sacrificio della povera e amata figlia, Ifigenia. La presenza di Cassandra a corte, schiava dell'Atride, rappresentò la classica goccia che fece traboccare il vaso.

Clitemnestra fu infine uccisa da suo figlio, Oreste, che in tal modo vendicò la morte del proprio padre. Sorte simile ma meno tragica toccò all'altra sorella, Timandra, regina di Tegea e poi di Dulichio, la quale, anima in pena, ebbe una vita amorosa turbolenta e senza pace.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • "I Miti Greci" di Robert Graves. Longanesi Editore (2018).


venerdì 7 maggio 2021

Achille, la genesi e l'epilogo di un eroe

Achille figlio di Peleo e della nereide Teti


Il mito di Achille è uno dei più complessi dell'intero patrimonio mitologico greco. Non solo l'Iliade, ma un sostanzioso ciclo di opere ha trattato le vicende del grande eroe, tracciandone l'esistenza prima e dopo quanto narrato da Omero.

Figlio di Peleo, re dei Mirmidoni e di Teti, la più bella delle Nereidi, Achille era un semidio. L'Achilleide, poema epico a firma dello scrittore romano Publio Papinio Stazio, narra che Teti avrebbe immerso il piccolo Achille nello Stige per renderlo invulnerabile. Lo tenne per un tallone che non fu bagnato. Achille pertanto si ritrovò con un unico punto debole.

La versione di Stazio cozza con quella di Apollonio Rodio secondo la quale Teti bruciava di notte parti del corpo del figlio, cosparse di ambrosia, per renderle invulnerabili. Quando Peleo scoprì lo strano rituale, Teti fuggì via. Il padre con l'aiuto del centauro Chirone (precettore di Achille), sostituì il tallone bruciato del figlio con quello di Damiso, un gigante venuto a mancare da poco e sepolto nella città di Pallene, conosciuto per la sua grande velocità nella corsa.

Quando il tallone di Damiso entrò a contatto col corpo di Achille, il giovane acquistò la sua leggendaria velocità. Delle vicende di Achille nella guerra di Troia ne sappiamo abbastanza tutti. È interessante soffermarci invece sulla fine del valoroso eroe, argomento che ancora una volta è trattato in tante versioni discordanti.

Sappiamo che Achille fu colpito da una freccia al tallone, scagliata da Paride e guidata da Apollo, mentre scavalcava le porte di Ilio. Più cruenta è la storia legata a Polissena, bellissima figlia di Priamo; quando Achille, dietro richiesta della ragazza, si recò al tempio di Apollo per contrarre matrimonio con lei, fu trafitto al tallone dalla freccia di Paride. Era stata proprio Polissena a svelare a Paride il punto debole del "futuro sposo", perseguendo la sua personale vendetta per la terribile sorte di Troilo, il suo adorato fratello, trucidato proprio da Achille che voleva farlo suo.

Chiudo con la versione di Tolomeo Efestione, grammatico greco del II secolo d.C. secondo cui fu Apollo a scontrarsi con Achille. L'eroe stava infatti fuggendo dal dio irato, quando perse il tallone di Damiso. Azzoppato, fu raggiunto da Apollo per il tragico epilogo.

Achille è un personaggio del mito che suscita da sempre pareri discordanti, soprattutto per quanto riguarda la sua resa nell'Iliade in paragone con Ettore. Achille, iracondo e superbo è l'antitesi del principe troiano, umile e devoto alla famiglia e ai doveri.

Eppure lo stesso Alessandro Magno adorò essere assimilato ad Achille, di cui si considerava diretto discendente. Nel rapporto reale tra Alessandro ed Efestione rivisse quello leggendario tra Achille e Patroclo... Nelle immagini, Achille impersonato da Brad Pitt nel film "Troy" del 2004, da molti ritenuto il personaggio più riuscito della contestata pellicola di Wolfgang Petersen.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • "I Miti Greci" di Robert Graves. Longanesi (2018).
  • "Iliade, edizione integrale", Newton & Compton Editore (2018).
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lunedì 29 marzo 2021

Pigmalione e Galatea

"Pygmalion et Galatée" di Jean-Léon Gérôme


Molti artisti si sono cimentanti con questo bellissimo mito, realizzando opere pittoriche e illustrazioni di grande impatto visivo. Dai famosi dipinti di Jean-Léon Gérôme (poco sopra) e di Ernest Normand al disegno del celebre illustratore Boris Vallejo. Ovidio narra la storia di Pigmalione nel libro X delle "Metamorfosi". Egli era un abile scultore di Cipro.

Un tipo solitario che aveva scelto di non sposarsi perché disgustato dai vizi delle Propetidi, giovinette di Amatunte, colpevoli di aver negato la divinità di Afrodite. Pigmalione trovò rifugio nell'Arte, scolpendo nell'avorio una statua che potesse incarnare il proprio ideale di donna. La scultura era splendida... l'artista se ne innamorò.

La osservava per ore perdendosi in lei, la baciava, le toccava le dita nella speranza di avvertire un impercettibile movimento. Pigmalione onorava la sua creazione di vesti, gioielli e doni di ogni tipo. Di notte la adagiava sul letto per farla riposare. Venne il giorno della festa di Afrodite.

Egli si recò al tempio della Dea per compiere le offerte: «Se voi potete tutto, fate che sia mia moglie», disse con voce esitante. Afrodite ascoltò l'uomo e decise di fargli il più prezioso dei regali. Quello stesso giorno, Pigmalione baciò la statua distesa nel letto al suo fianco.

Le labbra gli sembrarono calde e anche il petto della scultura parve cedere al suo tocco. Ella prendeva lentamente vita e "sollevando alla luce gli occhi timidi, vide insieme il cielo e l’amante" (Ovidio). Afrodite fu presente alle nozze dei due e benedisse la bambina, frutto del loro amore, la bella e dolce Pafo "da cui l'isola ebbe il suo nome" (Ovidio).

La versione di questo mito narrata da Ovidio è elegante e raffinata. La divinità premia un uomo che, allontanando ogni eccesso e ogni empietà, ha trovato rifugio nella perfezione e nell'ideale dell'Arte, evadendo pertanto e consapevolmente da una realtà che non gli apparteneva.

Esistono varianti che stravolgono del tutto questo mito anche nel significato più profondo. Per Arnobio, retore e apologista cristiano (IV secolo) che riprese gli scritti di Filostefano (autore greco del III secolo a.C.), Pigmalione era il sovrano di Cipro oltre ad essere un abile scultore.

Non aveva tempo per l'amore, quasi lo disprezzava, convinto che nessuna donna reale potesse eguagliare la perfezione delle forme che lui stesso era in grado di plasmare. Egli passava gran parte del giorno lavorando a una particolare scultura di donna, il suo capolavoro.

Incorse nell'ira di Afrodite che volle punirlo, facendolo innamorare perdutamente della sua creazione d'avorio. La Dea si divertiva tantissimo nel vedere Pigmalione struggersi di passione per un qualcosa di inanimato. Ma ben presto Afrodite provò pietà e con un tocco delle sue mani, donò vita alla scultura che si trasformò in una meravigliosa fanciulla. Questa nel mito non ha nome. Autori del XVIII secolo decisero di chiamarla Galatea.

Vi lascio con il delicato racconto di Ovidio:

"...scolpì con arte mirabile il candido avorio,
e gli diede una forma con cui non può nascere nessuna donna,
e s’innamorò della sua opera.
L’aspetto è quello di una ragazza vera,
e si crederebbe che sia viva e voglia muoversi,
salvo il pudore; a tal punto l’arte nasconde l’arte.
La guarda e si consuma d’amore per il corpo finto."

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia.
  • Il dipinto "Pygmalion et Galatée" è di Jean-Léon Gérôme (1824-1904).
  • "I Miti Greci" di Robert Graves. Longanesi Editore (2018).

sabato 13 marzo 2021

La Dea dei Serpenti Minoica

La dea dei serpenti minoica


La Civiltà Minoica, fiorita tra il 2000 e il 1450 a.C. nell'isola di Creta, ha lasciato in eredità diverse testimonianze della sua cultura tra cui delle enigmatiche figure femminili in maiolica di altezza variabile tra i 30 e i 40 cm circa.

Due di queste statuette furono rinvenute in una camera sotterranea del Palazzo di Cnosso dall'archeologo britannico Sir Athur Evans nel 1903; risalgono entrambe al 1600 a.C. La prima, la più conosciuta (che vediamo in foto), stringe due serpentelli nelle mani. La seconda ha i rettili attorcigliati intorno alle braccia.

Evans cercò dei parallelismi con la cultura egizia trovandoli proprio nei serpenti, nel gatto posto sopra il copricapo e nelle fattezze del viso. Classificò queste statuette come la rappresentazione di importanti divinità della terra, spiriti del mondo infero con valore propiziatorio.

La Dea dei Serpenti sarebbe pertanto un'ipotetica Grande Madre cretese, una divinità femminile primordiale, legata alla fertilità, all'esistenza, al concetto di rigenerazione della Natura, alla vita e alla morte. Da notare nella statuina in questione, la bellezza dell'abito a falde, probabilmente rituale.

Il corpetto copre le spalle, lasciando scoperto il prorompente seno, forte simbolo di fertilità connesso con il significato degli stessi serpenti. Nelle concezioni religiose arcaiche, alla base di società matriarcali, il serpente era una sorta di animale totemico femminile; un simbolo stesso della donna, rappresentando il potere divino della creazione e della rigenerazione.

Anche il gatto era connesso ai medesimi significati. Ricordo a tal proposito che in Egitto, Bastet, mite e protettiva, era la Dea-Gatto delle donne, della casa, della fertilità e delle nascite. A Creta il culto di una Dea Madre della Terra, quella che i greci identificarono come "Potnia theron" ("Signora degli animali") è attestato fin dagli inizi della Civiltà Minoica e si trasmise alla successiva Civiltà Micenea. Un culto, ai primordi "generico" che nei secoli, grazie alla maggiore complessità delle culture e della ritualità, assunse personificazioni distinte e più mirate.

Altre due statuette della Dea dei Serpenti rinvenute negli scavi del Palazzo di Cnosso a Creta

Sussistono tuttavia dubbi riguardo le teorie avanzate in merito da Sir Arthur Evans, accusato di aver prodotto una visione distorta della Civiltà Minoica, eccessivamente incentrata sulla figura femminile soprattutto in ambito religioso. Abbiamo poi teorie che vorrebbero identificare le statuette come rappresentazioni di sacerdotesse di un culto sconosciuto, forse persino di semplici dame di corte. Gli studi sono in divenire, sperando magari in un futuro (non troppo lontano) di nuove scoperte che possano, una volta per tutte, chiudere il cerchio interpretativo riguardo questi meravigliosi manufatti, tra i più affascinanti e misteriosi dell'Antichità...

A cura di Andrea Contorni

Bibliografia e note:
  • La prima statuina in foto è conservata al Museo Archeologico di Candia in Grecia. (Fonte Wikipedia con la seguente Licenza Creative Commons).
  • La seconda statuina (a sinistra) è conservata al Walters Art Museum di Baltimora.
  • La terza statuina (a destra) fa parte della collezione del Museo Archeologico "Heraklion" di Creta. (Fonte Wikipedia con al seguente Licenza Creative Commons).
  • "Arte nel tempo" di Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari. Bompiani Editore (1995),

martedì 9 marzo 2021

Lucrezia, la morte di una matrona romana

Sesto Tarquinio e Lucrezia in un dipinto del Tiziano


Le vicende legate a Lucrezia ci sono narrate da Tito Livio. Il triste epilogo della vita di questa donna irreprensibile e coraggiosa diede il via al cambiamento. La cacciata dell'ultimo re di Roma, la fine della monarchia e la nascita della Repubblica furono conseguenze dell'atto estremo di Lucrezia.

Tutto ebbe inizio durante l'assedio di Ardea. La noia portò i figli del re e alcuni nobili a tornare di nascosto a Roma, di notte, per spiare i comportamenti delle proprie consorti. Tutti rimasero affascinati da Lucrezia, moglie di Collatino, figlio di Tarquinio Arunte "Egerio", nipote del precedente sovrano Tarquinio Prisco.

Lucrezia, di rara bellezza ed eleganza, dai modi composti e dalla provata castità, era l'esempio più alto di virtù femminile. Mentre alla reggia, le consorti reali sopperivano alla mancanza di mariti e fratelli dando un sontuoso banchetto, Lucrezia era intenta al telaio, circondata dalle ancelle.

Collatino fece l'errore di invitare i compagni a cena, vantando le doti di sua moglie in paragone alle altre. Sesto Tarquinio, il debosciato figlio del re Tarquinio il Superbo, osservò Lucrezia per tutta la sera, si invaghì di lei e desiderò farla sua. Pertanto qualche giorno dopo, in assenza del cugino, si presentò a Collazia, chiedendole ospitalità. Nel pieno della notte, armato di spada, entrò nella stanza della donna esclamando:

«Lucrezia chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e ho una spada in mano. Una sola parola e sei morta!»

Lucrezia si ribellò, incurante del suo destino. Ma Sesto era un meschino dalla mente perversa. Minacciò di eliminare lei e un servo della casa. Avrebbe poi dichiarato a tutti di averli trovati nella stessa camera. La memoria di Lucrezia sarebbe stata infangata per sempre dall'accusa di adulterio.

La donna fu costretta a cedere. Da morta non avrebbe potuto difendere il suo onore. Il mattino dopo, mentre Sesto Tarquinio ripartiva soddisfatto, Lucrezia inviò un messaggero ad Ardea. Suo padre Spurio LucrezioCollatino e i nobili Publio Valerio e Giunio Bruto giunsero a Collazia nel più breve tempo possibile. Lucrezia, in lacrime, raccontò loro l'accaduto. Fece il nome di chi aveva abusato di lei e chiese vendetta. Gli uomini tentarono di rassicurarla e di consolarla, ma la donna fu irremovibile.

«Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l'esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!»

Afferrò un coltello che teneva nascosto sotto la veste, si colpì e cadde a terra esanime tra le urla disperate dei congiunti. Il sacrificio estremo e immeritato di Lucrezia, compiuto in difesa di tutte le donne, spinse suo padre e Giunio Bruto a farsi promotori della sommossa popolare che portò alla cacciata di Tarquinio il Superbo e alla nascita della Repubblica. Correva l'anno 509 a.C.

Particolare del dipinto "Lucrezia" di Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553)
Particolare del dipinto "Lucrezia" di Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553)

La spiegazione del mito.

Il racconto di Lucrezia è una leggenda, inventata da Livio in primis e ripresa poi da autori successivi quali Publio Annio Floro ed Eutropio. Lo scopo era quello di "nobilitare" la nascita della Res Publica romana, intesa quale atto di ribellione delle antiche gentes latino-sabine all'elemento dominante etrusco.

Infatti il capo della sommossa, Lucio Giunio Bruto, era un esponente della gens Iunia che vantava una stirpe troiana. La finezza narrativa vede però come protagonista femminile, una donna, Lucrezia, figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino, appartenente a un'antichissima famiglia etrusca che però "casualmente" aveva rinnegato gli usi "liberi e licenziosi" del suo popolo di appartenenza per abbracciare il mos maiorum romano.

In tale ottica la figura e il ruolo della donna nella società riprendevano in massima parte e con qualche eccezione, quelli della donna greca, imperniati sul modello ateniese. Infatti nel racconto di Livio, mentre le consorti dei Tarquini si scatenano al banchetto, felici ed esaltate dall'assenza di fratelli e mariti, Lucrezia lavora al telaio con le ancelle. È una scena ripresa dalla concezione classica della donna di greca memoria.

Lo stesso Ettore nell'Iliade omerica ricorda ad Andromaca di pensare meno alla guerra e più al telaio e alla gestione delle ancelle. La morte di Lucrezia, così plateale e teatrale, serviva a far comprendere quali fossero i valori fondanti della romanità del tempo, la base stessa della Repubblica: la fedeltà coniugale, l'onore, la devozione della donna all'uomo e agli interessi della collettività.

Tutto è rapportato in piena contrapposizione alla presunta "deriva morale" dell'aristocrazia etrusca i cui massimi esponenti erano proprio i "debosciati" figli del sovrano. Quando poi, cacciato il corrotto re etrusco Tarquinio il Superbo, si proclamò la Res Publica, si chiuse il cosiddetto cerchio; il popolo romano infatti, tornato romano a tutti gli effetti, chiese a gran voce di depennare lo stesso Collatino, marito di Lucrezia e primo console insieme a Bruto.

Collatino era a sua volta "etrusco" e seppur vittima di etruschi, non meritava la massima carica del neonato Stato. Fu innalzato al soglio consolare Publio Valerio Publicola che "casualmente" apparteneva a una gens di antichissimo lignaggio sabino. Cacciato l'elemento etrusco, ritornò dunque il dominio latino-sabino con i propri valori fondanti. La leggenda di Lucrezia va letta e interpretata in questo modo, considerata nell'ottica di un'azione letteraria e politica di propaganda degli antichi valori repubblicani.

Tito Livio scrisse infatti durante il principato di Augusto. Questi, con grande abilità, impose il suo potere ricollegandosi alle istituzioni repubblicane, segnando quasi una sorta di continuità indolore con il periodo storico precedente. Livio è ritenuto persino un nostalgico dell'epoca repubblicana, dimostrandosi critico verso alcuni aspetti del regime augusteo.

La figura leggendaria di Lucrezia è comunque importante, perché pone un elemento femminile alla base della nascita della Res Publica romana. Ella si fa portatrice di valori dell'epoca che non possono essere assolutamente giudicati in ottica moderna. Allo stesso modo ci confrontiamo ad esempio con l'Iliade, con l'Odissea e la mitologia tutta, espressioni di mondi antichi, quasi ancestrali che sono comunque alla base del nostro sapere e della nostra identità.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • "Ab Urbe condita libri" di Tito Livio, I 57 e I 58.
  • "Miti Romani. Il racconto" di Licia Ferro e Maria Monteleone. Einaudi (2014).

lunedì 8 marzo 2021

Polissena e la morte di Achille

"Sacrificio di Polissena" di Giovanni Francesco Romanelli, Metropolitan Museum of Art


Polissena è un personaggio correlato con le vicende dell'Iliade ma di lei non si fa menzione nel poema omerico. Il suo mito è stato ripreso da Euripide in due fortunate tragedie, Le Troiane e l'Ecuba e da Sofocle nella Polissena e raccontato da diversi autori successivi quali Gaio Giulio Igino e Quinto Smirneo. Polissena era una delle figlie di Priamo e di Ecuba, sovrani di Ilio, una principessa di mirabile bellezza e dal carattere gioioso e fanciullesco.

Furono proprio i poeti tragici a considerarla una sorta di corrispettivo troiano dell'achea Ifigenia, la povera figlia di Agamennone, sacrificata per riparare al torto del padre nei confronti di Artemide. Stessa ingenuità, medesimo coraggio, uguale sorte disgraziata. Il mito di Polissena è complesso e inizia agli albori del conflitto greco-troiano.

La fanciulla trascorreva molto tempo in compagnia di Troilo, suo fratello più piccolo. Questi amava i cavalli ed era un ragazzetto bellissimo tanto che si vociferava fosse figlio di una notte d'amore tra Apollo e la regina Ecuba. Purtroppo sulla testa di Troilo pendeva un terribile vaticinio: se avesse compiuto vent'anni, Ilio non sarebbe mai caduta.

Pertanto Atena incoraggiò Achille a liquidare la faccenda, eliminando il ragazzo. Un giorno, Polissena e Troilo giunsero a cavallo alla fontana di Timbra, vicino al tempio di Apollo, esterno alle mura della città. Furono aggrediti da Achille che lì si era appostato. L'eroe afferrò il ragazzo per i capelli trascinandolo giù dal cavallo. Stava per ucciderlo quando fu preso del desiderio incontenibile di farlo suo.

Troilo fuggì all'interno del tempio di Apollo ma non ebbe scampo. Achille, infuriato per il diniego del giovane a giacere con lui, lo decapitò, facendo poi scempio del suo corpo. Apollo considerò il gesto di Achille un'onta imperdonabile. Polissena, disperata per la morte del fratello, divenne lo strumento consapevole o inconsapevole della vendetta del dio.

Passarono dieci anni di guerra. Priamo ed Ettore, sfruttando la rottura tra Achille e Agamennone, giunsero ad accordi con l'imbattibile eroe. In cambio della sua "neutralità" nel conflitto, Achille avrebbe ottenuto la meravigliosa Polissena in isposa. Qualcuno racconta che Achille si innamorò della fanciulla proprio nel giorno dello scempio di Troilo, altri quando gli fu presentata da Ettore sempre al tempio di Apollo Timbreo.

Il dipinto "Il sacrificio di Polissena" è di Nicolas Prévost (1604-1670)

In uno dei loro incontri, Polissena riuscì a convincere Achille e rivelarle il suo unico punto debole, il tallone. Quando Achille, dietro richiesta della ragazza, si recò al tempio di Apollo per ratificare il patto o per sposarsi, fu trafitto al tallone da una freccia scagliata da Paride, nascosto dietro la statua del dio. E lì spirò il Pelide Achille, il guerriero dal proverbiale valore in battaglia.

In seguito alla caduta di Ilio, si narra che il suo spirito inquieto comparve al figlio Neottolemo chiedendo il sacrificio dell'amata Polissena. Neottolemo catturò la bella fanciulla immolandola, senza pietà alcuna, alla memoria del defunto padre. Esistono molte versioni di questo mito con diverse interpretazioni del comportamento di Polissena.

La fanciulla era innamorata di Achille? Accettò il suo triste destino perché aveva vendicato la morte del fratello o ancora una volta aveva agito unicamente per il bene della patria? Sussiste una certa ambiguità di fondo nella figura di Polissena, che pur condividendo la stessa sorte di Ifigenia, non esprime, nel sacrificio ultimo, quel sentimento di "rassegnata" purezza della figlia di Agamennone.

E nella letteratura successiva, che molta fama ha donato alla principessa troiana, persiste questo dualismo tra chi la considera una donna resa spietata e vendicativa dalla morte del fratello di cui si era persino invaghita e chi la ritiene l'ennesima innocente fanciulla vittima dell'ingiustizia umana o... divina.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • Il primo dipinto "Il sacrificio di Polissena" è di Giovanni Francesco Romanelli.
  • Il secondo dipinto "Il sacrificio di Polissena" è di Nicolas Prévost.
  • "I Miti Greci" di Robert Graves. Longanesi (2018).
  • "Fabulae" di Caio Giulio Igino. Sintesi sul sito "SuNelWeb".

sabato 6 marzo 2021

Bastet (Ailuros), la dea gatta

Il Gatto Gayer-Anderson è ritenuto una rappresentazione della dea, British Museum, Londra.


Venerata già a partire dalla II Dinastia (2890 a.C.), Bastet era in origine una Dea della guerra, madre protettiva e terribile vendicatrice allo stesso tempo, onorata nella regione del Delta del Nilo. Conosciuta come Bast, possedeva il corpo di donna e la testa di leonessa. Somigliava in tutto e per tutto alla Dea-leonessa Sekhmet di cui era sorella e con la quale veniva spesso identificata.

Nella primitiva forma guerriera, Bastet era colei che dilaniava il mostro Apopis, il demone-serpente, personificazione del male assoluto. Nel corso dei secoli i tratti della Dea cambiarono, assumendo caratteristiche più miti e pacifiche. Perse le sembianze leonine che rimasero della sola Sekhmet, (Dea feroce e temuta), per prendere quelle di gatta.

Tuttavia la sua funzione di protettrice degli esseri umani dal male, identificato sempre con Apopis, rimase tale. A testimonianza di ciò, abbiamo diverse raffigurazioni sacre dove si vede un gatto che con un coltello taglia la testa di un serpente. Dea della casa, dei gatti, delle donne, della fertilità e delle nascite, Bastet era una delle divinità più amate dagli egizi.

Il suo simbolo, comune a molte divinità femminili, era il sistro, antichissimo strumento sacro alla Dea Iside. Le donne che desideravano una gravidanza erano solite indossare un amuleto di Bastet, spesso attorniata di cuccioli. La venerazione di Bastet, comportava che il gatto era considerato un animale sacro, degno alla morte di grandi onori. Uccidere, anche per errore, un gatto o un ibis (animale sacro a Thot), poteva provocare la condanna e la pena capitale per il malcapitato.

Intere necropoli venivano dedicate ai gatti: famosa è quella nella città di Par Bastet ("Casa di Bastet", in greco Bubastis), sede principale del culto della Dea-gatta. L'importanza di questo centro religioso è testimoniata dallo stesso Erodoto nelle sue "Storie". In epoca tarda, Bastet entrò nel numeroso stuolo delle divinità funerarie, nella qualità di custode della Barca Solare durante il suo viaggio notturno.

Antica raffigurazione della Dea-gatta Bastet

L'imbarcazione rituale percorreva i due cieli, trasportando il Sole, rigenerato ogni giorno all'alba. Simbolicamente tale percorso rappresentava la rinascita dalla morte a nuova vita. Bastet sopravvisse nel successivo periodo tolemaico, quando la dinastia macedone, che prese il via da Tolomeo Sotere, generale di Alessandro Magno, governò l'Egitto.

Fu ellenizzata in Ailuros, (dal greco "áilouros", gatto), e considerata un aspetto di Artemide. Per tale motivo Bastet divenne sorella di Horus, identificato con Apollo, per riprendere il rapporto di fratellanza tra Artemide e Apollo. Per via del sistro, già nell'antichità, gli egizi tendevano a una certa confusione teologica, assimilando Bastet a Iside.

Percorrendo i secoli, durante la dominazione romana e ancora nel IV secolo con l'avvento del Cristianesimo, Ailuros/Bastet fu ancora venerata in una forma di culto che si coniugò in via definitiva con quello di Iside. Il santuario di Iside a File (isola del Nilo), era ancora attivo nel VI secolo con un proprio ordine sacerdotale. Fu chiuso da Giustiniano I. Bastet, Dea dalla Storia millenaria, fu pertanto tra le ultime divinità pagane a essere ufficialmente venerate, testimone di un mondo che non esisteva più.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • "Mitologia e Dèi dell'Antico Egitto" di Massimo Dall'Agnola. Ferrari-Sinibaldi (2010).