sabato 27 febbraio 2021

Cibele, Magna Mater Deorum

Cibele guida il carro trainato da due leoni


Il culto della "Magna Mater" intesa come la Grande Madre degli Dèi fu introdotto a Roma nel corso del II secolo a.C. É riconducibile a Cibele, un'antica divinità anatolica, venerata come Grande Madre Idea, dal monte Ida nei pressi dell'antica città di Ilio.

Dea della forza creatrice e distruttrice della Natura, degli animali e dei luoghi selvatici, Cibele è l'essenza stessa di quella forma di culto primordiale, incentrato sulla figura di una Dea Madre generatrice del tutto, che si sviluppò fin dal Neolitico in varie culture del Mediterraneo e non solo.

Il maggiore centro di culto di Cibele era presso Pessinunte in Frigia. Nel corso del VII sec. a.C. il culto di Cibele si diffuse nelle colonie greche dell'Asia Minore. Infine giunse nel continente; Cibele fu assimilata nel pantheon ellenico a Rea, una titanide, (ovvero una dea antica, nata prima degli Olimpi), generata da Urano (il Cielo), e Gea (la Terra).

Sorella e moglie di Crono, Rea/Cibele è madre di Zeus, Poseidone, Hera, Ade, Demetra ed Estia. Nel 204 a.C., mentre imperversava la Seconda Guerra Punica, i sacerdoti romani trassero dai Libri Sibillini il responso di trasferire nell'Urbe la pietra nera di forma conica, simbolo di Cibele, custodita a Pessinunte.

In tal modo, Annibale sarebbe stato sconfitto. Nel 191 a.C. fu edificato un tempio sul Palatino al fine di custodire l'oggetto, considerato necessario per l'esistenza stessa di Roma. Cibele, come Rea nel mondo greco, è rappresentata seduta su un trono o sul carro trainato da due leoni.

Ovidio racconta che i giovani Atalanta ed Ippomene (o Melanione), freschi sposi, pervasi dal desiderio, profanarono il tempio di Cibele. La Dea, adirata, li trasformò in leoni condannandoli a trainare il suo carro per l'eternità. Dietro il triste epilogo della storia d'amore dei due, c'era la volontà vendicatrice di Afrodite. La Dea greca della bellezza aveva infatti favorito Ippomene nella gara di corsa contro Atalanta. Peccato che Ippomene dimenticò di onorare chi l'aveva aiutato, una volta ottenuta la vittoria e il cuore di Atalanta.

Cibele è sempre accompagnata dal fedele Attis, suo servitore eunuco. Il mito di Attis si lega alla figura di Agdistis, un demone dalla doppia natura maschile e femminile, nato dal tentativo maldestro di Zeus di accoppiarsi proprio con Cibele. La Dea si divincolò sottraendosi alla violenza dell'eccitato Zeus proprio nel momento della sua eiaculazione.

Il seme di Zeus cadde sulla Terra generando il demone intersessuale Agdistis. Questo si invaghì poi del giovane e bellissimo mortale Attis. Ma quando il ragazzo lo rifiutò con convinzione, il demone lo fece impazzire. Attis in preda alla follia si evirò sotto un pino nel giorno stesso del matrimonio con la figlia del re Mida a Pessinunte. Poi si gettò da una rupe, trovando la morte.

Dal suo sangue, cosparso in terra, nacquero le viole mammole. Cibele, impietosita per la sorte avversa del ragazzo, lo rese immortale prendendolo a suo servizio. Esiste anche un altro mito che riguarda la sorte di Attis. Il giovane divenne il desiderio sessuale della stessa Cibele. La Dea, gelosa della ninfa Sangaride, della quale Attis era innamorato, la uccise.

Attis, disperato per la perdita, si tagliò il pene pur di non soddisfare la brama di Cibele. Tuttavia la divinità si pentì della sua stessa crudeltà e salvò Attis da morte sicura, rendendolo immortale e prendendolo al suo servizio.

I romani dedicarono ad Attis un ciclo di festività dal 15 al 28 di Marzo. Tra queste vi era il "Dies Sanguinis" (24 Marzo), cerimonia nella quale i sacerdoti del culto si flagellavano per rappresentare la dipartita del giovane. Il giorno seguente si celebravano le "Hilaria" per festeggiare la sua resurrezione.

Per le strade vi erano cortei giocosi e una processione della statua di Cibele. Nel culto romano abbiamo diverse figure divine che possono essere associate a Cibele, considerate manifestazioni o emanazioni della stessa dea. Da Opi, divinità arcaica di origine sabina, personificazione della terra, alla dea agreste Cerere, passando per la Bona Dea, Tellus e Abbondanza.

Tutte rientrano nel concetto di "Magna Mater Deorum", legate al ciclo riproduttivo della Natura, alla genesi stessa dell'Universo. Tornando ad Attis, il suo ruolo si accentuò in epoca imperiale, evidenziando il dualismo di morte e resurrezione e simboleggiando, per questo, il ciclo vegetativo della primavera. Il culto assunse una connotazione fortemente misterica e soteriologia.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • "I Miti Greci" di Robert Graves. Longanesi Editore (2018).
  • "La religione romana arcaica" di Georges Dumézil. BUR (2017).

giovedì 25 febbraio 2021

Eos, la dea dell'Alba

Eos, la dea dell'Alba


Dischiude le porte del giorno, la bellissima Dea dalle dita rosee e dalle braccia dorate, madre dei Venti e degli Astri. Eos, (assimilabile alla romana Aurora), figlia del titano Iperione, è la Dea greca dell'alba.

Ella accompagna la nascita del nuovo giorno. Conduce sicura la biga trainata da due splendidi cavalli alati, Faetonte e Lampo, precedendo il carro di Helios. Il Dio del Sole è suo fratello, la Luna (Selene) sua sorella. Meravigliosa Dea alata, seconda per bellezza solo ad Afrodite, vestita d'oro e di fiori, Eos sposò il titano Astreo con il quale ebbe quattro figli, i venti Borea, Zefiro, Noto e Apeliote.

Attirò la brama di Zeus che la fece sua. Si innamorò del gigante Orione e poi cedette alla corte di Ares, il Dio della guerra. La storia tra i due suscitò le ire della capricciosa Afrodite che voleva Ares tutto per lei. Eos pagò pegno e la sua condanna fu quella di innamorarsi di continuo di uomini mortali.

La Dea si rivelò a giovani avvenenti per amori passeggeri fin quando non incontrò Titone, fratello di Priamo, sovrano di Ilio. L'uomo cedette all'amore della Dea e fu da lei rapito. Si ritrovò prigioniero in un maestoso palazzo in Aethiopia. Eos supplicò Zeus di donare al suo innamorato l'immortalità.

La ottenne, dimenticando però di chiedere anche l'eterna giovinezza. Titone negli anni invecchiò inesorabilmente, divenendo malfermo, sofferente e dalla voce stridula. Eos lo ripudiò non sopportando più i suoi lamenti. L'anziano e immortale uomo fu confinato in una grotta buia e profonda.

Il povero Titone divenne così una cicala o fu trasformato in una cicala secondo un mito tardo. Di Titone le rimanevano i due amati figli, Ematione e Memnone. Quest'ultimo fu principe d'Etiopia e durante il conflitto troiano, cadde per mano di Achille. Eos ne fu talmente addolorata da piangerne ogni mattino la morte. Le liquide perle delle sue lacrime cadendo sulla Terra formarono la rugiada.

La maledizione di Afrodite continuò il suo implacabile corso. Eos finì per innamorarsi perdutamente di Cefalo, uno splendido ragazzo, grande cacciatore e sposo di Procri, figlia del re ateniese Eretteo. Durante una battuta di caccia in un bosco, Eos rapì Cefalo. Tentò di sedurlo ma il giovane, innamorato della consorte, la rifiutò con sdegno.

Eos allora gli insinuò il dubbio che fosse proprio Procri a tradirlo. Se la Dea avesse avuto ragione, Cefalo si sarebbe concesso a lei. Fu così che Eos trasformò Cefalo in uno straniero che si presentò a Procri portando meravigliosi doni. La fanciulla, ammaliata dall'uomo, cedette alle lusinghe. A quel punto Cefalo assunse le sue vere sembianze. Procri, umiliata, fuggì a Creta.

Il Fato fece rincontrare anni dopo i due sposi che si riconciliarono. Ma per un incredibile gioco beffardo del destino o per intercessione della stessa Eos o di Artemide, Cefalo uccise per errore Procri durante una battuta di caccia. Altri due amanti mortali della volubile Dea dell'Alba furono Ganimede e Clito.

In Egitto, due enormi statue del faraone Amenhotep III si legarono fin dall'antichità al mito di Eos. All'alba di ogni giorno una di queste "emanava" una sorta di lamento. Il fenomeno fu interpretato dagli storici greci come il saluto dell'eroe e figlio prediletto Memnone alla madre Eos.

In realtà tale suono era causato dal riscaldamento della roccia e dal vento che ne percorreva le fessure. Sta di fatto che ancora oggi le due statue suddette sono conosciute come "I Colossi di Memnone". Nell'iconografia Eos è rappresentata come una donna con sembianze "angeliche". Quando apre le porte dell'alba, ella è coronata da rose e rose sono ai suoi piedi... quegli stessi fiori che sulla Terra vivono della rorida rugiada che stilla dagli occhi di una madre che ha perso il figlio più caro... per l'eternità.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:

lunedì 22 febbraio 2021

Orfeo ed Euridice, l'amore impossibile

Il dipinto "Orfeo ed Euridice" è di Catherine Adelaide Sparkes (1842-1910)


È un mito struggente, universalmente conosciuto e raccontato da tanti, tra cui Virgilio nelle Georgiche e Ovidio nelle Metamorfosi. Orfeo, figlio della Musa Calliope e del re tracico Eagro, viveva tra i Ciconi, una selvaggia tribù di Tracia. Orfeo era un eroe. Egli non combatteva con spada e scudo ma con l'arte del canto e col suono della lira.

Orfeo dominava la Natura, incantava le fiere e persino gli alberi e le pietre lo seguivano con devozione. Orfeo con la sua Arte era il pupillo di Apollo. Orfeo era in simbiosi con la Natura perché devoto anche a Dioniso. Entrambe queste divinità segnarono il suo destino infausto, perché l'uomo non deve mai credersi un dio e assumerne le prerogative.

Tornato dalla spedizione degli Argonauti, Orfeo sposò la bella ninfa Euridice. Un giorno, inseguita dal pastore Aristeo che voleva farla sua, la fanciulla incappò in un serpente che la morse al piede. Ella morì. Non deve sfuggirci un primo particolare importante: Aristeo è un figlio di Apollo. Orfeo non si rassegnò alla morte dell'amata.

Orfeo era consapevole che nessuno poteva resistere al suo canto, neppure le creature dell'Oltretomba. E vi discese. Incantò Caronte, placò il rabbioso Cerbero, fermò la ruota del supplizio di Issione e giunse al cospetto di Ade e di Persefone. La musica fece riaffiorare nella Dea i sereni ricordi della sua vita prima che Ade la rapisse.

Fissò Orfeo e si commosse. E persino il duro Ade cedette alla richiesta dell'Eroe, quella di ritessere il destino della sfortunata Euridice. «E sia. Accolgo la tua richiesta Orfeo a una condizione: la tua sposa ti seguirà ma tu non dovrai mai volgerti finché entrambi non sarete giunti alla luce del sole!» sentenziò Ade. La via del ritorno fu aspra. Un fioco chiarore annunciava l'uscita dal Regno dei Morti.

Orfeo accelerò il passo e quando fu toccato dai raggi del sole, si voltò impaziente. L'ombra di Euridice, indebolita al piede dalla mortale ferita, non aveva ancora raggiunto la luce. Orfeo si protese per afferrarla ma catturò soltanto l'impalpabile aria. Euridice fu risucchiata nelle tenebre. Per sempre. La vendetta di Apollo nei confronti dell'uomo che aveva osato dominare la Natura col suo canto, era compiuta.

Purtroppo Orfeo incorse anche nell'ira di Dioniso. Si narra che l'eroe, persa Euridice, rinunciò all'amore di altre donne. Iniziò gli uomini di Tracia a nuovi misteri, innamorandosi del giovane Calaide. Inoltre, forse per farsi perdonare da Apollo, smise di onorare Dioniso, dedicandosi unicamente al culto del Dio del Sole e della musica.

Dioniso incaricò le Menadi di far vendetta. Esse massacrarono tutti gli uomini mentre erano nel tempio di Apollo. Infine si accanirono su Orfeo, facendolo a pezzi. La testa dell'uomo fu gettata nell'Ebro e giunse, cantando, sull'isola di Lesbo. Qui, protetta da Apollo dalle brame di un serpente, fu posta nella grotta di Antissa sacra a Dioniso col potere di proferire oracoli.

Curiosa la disputa tra le due divinità con ancora Orfeo al centro della vicenda. Apollo, in collera con Dioniso per la scarsa affluenza dei fedeli ai suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro, intimò alla testa di Orfeo di smetterla di interferire col suo culto. E la testa da quel giorno tacque. Per quanto riguarda lo spirito di Orfeo, questo raggiunse l'Ade. Trovò Euridice nei Campi delle anime beate e al suo fianco prese a passeggiare... per l'eternità.

A cura di Andrea Contorni

La ballata di Orfeo. Di Marco Cecini.

Un triste canto piange la lira
lacrime dalle pizzicate corde,
la memoria al passato rimira
mentre Orfeo il labbro si morde.

Suono che dice ciò che il cuore sente,
suono che più non può dirsi felice.
Solo conosce un dolore struggente,
da che tolta gli è stata Euridice.

Talvolta incauto il cuor suo vola
alla dolcezza della morta sposa;
Sulla promessa che mai sarà sola
a tratti il ricordo fresco si posa.

“Tieniti caro questo giuramento:
mai seccherà del nostro amore il seme,
giuro che mai passerà un momento
che non veda me e te stare insieme”.

Le si rivolse con queste parole
ed ella era di colpo arrossita;
trascorse ora son due stagioni sole
da quando gli dei a lui l’han rapita.

Mentre fuggiva la colse la morte,
poiché braccata da brama bestiale,
non le riuscì d’evitar la sua sorte:
sacro s’infranse il vincolo nuziale.

Stesa sull’erba Euridice pensava
teneramente al volto dello sposo,
ed assai lieta d’essere schiava
d’un sentimento tanto gioioso.

Così la vide il dio agreste Aristeo,
nuda, bellissima in mezzo alle foglie;
e nell’assenza del marito Orfeo,
credette soddisfar le proprie voglie.

Quando del dio la ninfa s’accorse,
nella fuga si gettò impaurita;
cadde in terra e un serpente la morse,
in un colpo prendendole la vita.

Giunto Aristeo e vedendola morta,
al cuor sentì montargli la pietà;
mentre Euridice varcava la porta
del triste eterno regno d’aldilà.

Ignaro la sera tornò a casa Orfeo,
sperando riabbracciar l’amata moglie;
ma presto scoprì che un destino reo
di lei lasciava solo fredde spoglie.

Grida straziate, pianto triste e mesto,
nella lira sfoga il proprio dolore;
urla la rabbia di chi troppo presto
perduto ha sogni, vita e amore.

A quelle note si commosse il cielo,
lacrimò pioggia e tuonò parole;
s’oscurò chiudendosi in nero velo
per rendergli omaggio un pietoso sole.

I fiumi, i boschi, come ogni animale,
dolenti espressero il proprio cordoglio.
Tutti sapevano che non ha eguale
la pena d’un cuore d’amore spoglio.

Ricorda Orfeo ma non s’arrende al fato,
riavere vuole la giovane moglie.
Per riprender ciò ch’Amor gli ha dato
decide di varcar l’infere soglie.

Mai sopito amor impavido spinge
il bel cantor fin dentro all’Averno;
di non aver paura solo finge,
ché tutto lì è un crudo inverno.

Mentre le fosche contrade attraversa,
innumere anime guardano a lui.
Son coloro che ogni gioia han persa,
che gementi attendon giorni bui.

Ma di loro ormai Orfeo non si cura,
contro pietà egli erge lo scudo
di chi per altro tien premura.
Amor così lo rende agli altri crudo.

Quando infine al trono d’Ade arriva,
non al dio ma alla moglie si volge:
“O regina dell’anime defunte, diva,
morto non son eppur per queste bolge

vaga il mio cuore in cerca di speranza.
Rendi Euridice che morta qui giace
al marito che starne non può senza.
Musica vi do in cambio, se vi piace.”

Soave melodia soffusa accompagna
quella straziata ultima preghiera;
un rivo di lacrime puro bagna
il viso del dio dalla nera criniera.

In un attimo Averno muta in Eliso,
più non soffrono i dannati, ora beati.
Nelle tenebre schiarisce un Paradiso,
e più non rimpiangono d’esser nati.

Toccandosi la dea i capei biondi,
al fosco marito volge il discorso:
“Amor così diviso fra due mondi…
ricordi? Non molto tempo è scorso

da che noi avemmo una stessa guerra.
Era possibile al re dell’Inferno
amar Persefone della Terra?
No…pur ci giurammo amore eterno”.

“Triste storia richiama il mio ricordo,
questi due ci son simili, amore mio.
Non rimarrò al loro appello sordo,
pietoso sa essere il mortifero dio.

Và, cantore, e ti segua Euridice.
Ma voglio che le mie parole ascolti:
mai più con lei potrai esser felice,
se prima dell’uscio a guardarla ti volti”.

Pronto già per il lieto ritorno
sorridendo Orfeo le parole ascolta;
ma beffardo destin prima del giorno
infelice il farà ancora una volta.

Passo dopo passo il cuor gli freme,
il dio della morte non l’ha preso in giro.
Dalla salita affaticata geme
dietro lui la moglie, n’ode il respiro.

Voltarsi allor vorrebbe il poveretto,
ché per la moglie gli scoppia il cuore.
S’avvera così quel che il dio ha predetto,
tradito è Orfeo dal troppo amore.

Timida accenna Euridice un sorriso,
ma subito Orfeo inorridito arretra:
fino alle soglie del tenero viso
il corpo di lei si tramuta in pietra.

“Il troppo amore ha tradito entrambi,
nemmeno tenderti le braccia posso.
Se solo saprò che il mio amor ricambi,
non così tristo sarà questo fosso.”

Alle parole dell’amata moglie,
scoppia il cantore in un pianto cupo.
Di gettar decide le proprie spoglie
nel profondo abisso d’un fero dirupo.

Lì il suo corpo divorano le Furie,
e in pezzi gli riducono le membra.
Accanisce su Orfeo le sue ingiurie
un destino che odiar l’amore sembra.

Note e bibliografia:
  • Il dipinto "Orfeo ed Euridice" è di Catherine Adelaide Sparkes (1842-1910).
  • "I Miti Greci" di Robert Graves. Longanesi Editore (2018).
  • "I Miti dei Greci e dei Romani" di Tersilla Gatto Chanu. Newton & Compton (1997).
  • La poesia "La ballata di Orfeo" è di Marco Cecini - profilo autore su Facebook.

sabato 20 febbraio 2021

Ifigenia, il sacrificio...

Il dipinto "Il sacrificio di Ifigenia" a destra è di Alexandre-Denis Abel de Pujol (1785-1861)


Tra le figure della mitologia greca, Ifigenia è tra quelle che più hanno influenzato l'arte, la letteratura e la musica. Tantissime sono infatti le tragedie, le opere liriche e i dipinti che nei secoli hanno tratto ispirazione da questa bellissima e sfortunata vergine, primogenita di Agamennone e di Clitemnestra, sovrani di Micene.

Eschilo nella tragedia "Agamennone" narra la versione più antica e crudele del mito. La flotta greca non poteva salpare per Ilio. Era bloccata nel porto di Aulide in Beozia perché i venti erano contrari. L'indovino Calcante intimò ad Agamennone di sacrificare la sua figlia più bella ad Artemide.

Solo in questo modo, la flotta avrebbe preso il mare. Il re non comprese perché il volere della Dea fosse così efferato. Calcante gli ricordò di quando anni fa, colpendo una cerva con una freccia da lunga distanza, egli avesse esclamato che neppure Artemide sarebbe riuscita nell'impresa.

La grave offesa andava scontata. Agamennone acconsentì con dolore al sacrificio. Ulisse condusse Ifigenia in Aulide col pretesto del concordato matrimonio con Achille. Ma giunta nel porto e vestita da sposa, la fanciulla fu uccisa dallo stesso padre. L'ira della divinità fu placata e la flotta salpò.

È il trionfo del potere assoluto del Dio che chiede all'uomo l'assurdo sacrificio di un figlio per favorire il bene della comunità. Euripide nei drammi "Ifigenia in Aulide" e "Ifigenia in Tauride" stravolge invece il finale. Proprio nel momento in cui Agamennone affondò il coltello nel cuore di Ifigenia, Artemide la sostituì con una cerbiatta, portandola in salvo.

La ragazza si risvegliò in Tauride alla corte del re Toante che la rese sacerdotessa della Dea della caccia. In questa versione del mito, la divinità punisce ma perdona pur sottraendo comunque la fanciulla ai propri cari. Ma in tutto ciò, la povera Ifigenia come affronta la morte, una volta compresa la situazione? Non spende lacrime e non si dispera.

Dice di essere felice di sacrificare la propria vita per il bene della Grecia e per l'onore della sua famiglia. L'epicureo Lucrezio, definito a posteriori un visionario delirante, ateo psicotico in preda alle forze del male, affronta la figura di Ifigenia nel poema "Sulla natura". E bolla tutto il mito come una delle tante storie di crudeltà, perpetrate dall'uomo in nome di una cieca e superstiziosa religione ("Tantum religio potuit suadere malorum"), bieco e scellerato strumento politico e non fede serena e rassicurante. Chiamatelo pazzo.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • Il dipinto "Il sacrificio di Ifigenia" a destra è di Alexandre-Denis Abel de Pujol (1785-1861).
  • "I Miti Greci" di Robert Graves. Longanesi Editore (2018).
  • "Olympos" di Giorgio Ieranò. Sonzogno Editore (2018).

giovedì 18 febbraio 2021

Eracle (Alcide), le origini del mito

Eracle lotta con il leone


La notte durò per tre lunghi cicli mentre Zeus si accoppiava con la meravigliosa principessa Alcmena di Micene, dopo aver preso le sembianze di Anfitrione, marito di lei e re di Tirinto. Quando questi rientrò nelle proprie stanze, ignaro di tutto, si unì alla propria sposa.

Alcmena diede così alla luce due bambini, in apparenza gemelli, per la gioia di Anfitrione che li credeva entrambi suoi. Ma il primo era il frutto dell'amore divino, l'altro (Ificle) di quello mortale. Il grande indovino Tiresia rivelò ad Alcmena la natura del suo primogenito e la donna temette la vendetta della gelosa Hera.

Per questo chiamò il figlio Eracle, che significa "Gloria di Hera" nel tentativo di rabbonire la Dea. Un'altra versione racconta che Ermes, istigato da Zeus, attaccò il piccolo al seno di Hera mentre dormiva. Fu così che egli divenne forte e valoroso e conseguentemente assunse il nome di Eracle.

Vi racconto un'ulteriore versione, quella forse più conosciuta. Il giovane crebbe col nome di Alcide, patronimico ricavato da Alceo, che era il nonno paterno. Alcide era un prode guerriero dotato di una forza incredibile. Nella guerra tra le poleis di Tebe e Orcomeno, Alcide dimostrò tutto il suo valore guerriero.

In cambio Creonte, re di Tebe, gli concesse la mano della figlia Megara. Ritornato in Grecia dopo aver partecipato alle imprese degli Argonauti (secondo alcuni autori), Alcide vendicò la morte di Creonte, uccidendo l'usurpatore Lico. Alcide era un uomo potente e rispettato, acclamato dalla folla e appagato dalle sue memorabili imprese.

Amava sua moglie e i tre figli avuti con lei. Tuttavia la consorte di Zeus, Hera, lo spiava con odio dall'Olimpo. Alcide era l'ennesimo figlio dei tradimenti del padre degli Dèi. Decise di maledirlo, rendendolo folle. E fu così che un giorno, Alcide armato di arco e frecce, entrò nella sala del palazzo dove stavano giocando i suoi tre figli e i due del fratello Ificle.

Accecato dalla follia, uccise tutti i pargoli con colpi precisi e letali. Poi si "risvegliò" dallo stato alterato rendendosi conto di quanto aveva compiuto... Il suo tempo a Tebe era finito. Raggiunse Delfi per consultare la pizia al fine di conoscere cosa gli Dèi avessero in serbo per lui.

Un sacerdote cieco gli disse che il suo nuovo nome sarebbe stato "Eracle" ovvero "Gloria di Era" e che ben dodici prove difficilissime lo avrebbero atteso per espiare la sua colpa e ricevere in dono l'immortalità degli Dèi. Era il principio della leggenda di Eracle e delle sue fatiche...

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • "Le fatiche di Ercole", RBA Edizioni.

sabato 13 febbraio 2021

Andromaca, l'ideale greco della donna

Ettore e Andromaca


L'illustrazione rappresenta Ettore e Andromaca nella scena più commovente dell'intera Iliade. Questa donna è la consorte devota dell'eroe troiano, la regina del focolare domestico, la madre amorevole. Da sempre molta amata dai lettori dell'opera omerica, Andromaca ritorna nelle tragedie di Euripide e nell'Eneide virgiliana.

Parliamo di una donna remissiva che attende ai lavori di casa secondo il più classico costume ellenico o Andromaca potrebbe essere considerata un personaggio femminile atipico dai tratti straordinari? Andiamo con ordine. Il suo nome cela un indizio: Andromaca dal greco "Ανδρομάχη" significa "colei che combatte gli uomini" o "colei che combatte come un uomo".

Principessa di Tebe Ipoplacia, fu costretta dal padre a sposare Ettore di Ilio. Finì per innamorarsi del suo uomo e gli diede uno splendido erede, Astianatte. Nell'Iliade, la donna, preda di un pianto dirotto, compare nel VI libro. Ella tenta di dissuadere il marito dallo scontro con gli Achei. Ma le lacrime cedono ben presto ai consigli strategici che Ettore non accetta. Anzi ne è talmente infastidito da sentire il bisogno di ricordare alla consorte qual è il ruolo della donna nella società:

«Adesso torna a casa, dedicati ai tuoi lavori, alla spola, al fuso, e veglia sull'operato delle ancelle; e a noi, quanti nascemmo fra le mura di Ilio - e a me per primo - lascia i doveri della dura guerra».

A voler stroncare definitivamente questo atto di "ribellione" femminile, interviene lo stesso autore nei due episodi successivi dove Andromaca è una donna affranta per la morte di Ettore. Ma nel dolore, la donna non perde la lucidità per comprendere quanto sia segnato il destino suo, del figlio e di tutta Ilio.

Questo dualismo di disperazione e forza d'animo ricorre anche nelle "Troiane" di Euripide dove Andromaca è la concubina di Neottolomeo (figlio di Achille), colui che ha gettato dalle mura il povero Astianatte. Andromaca è la donna che rimpiange i suoi cari morti. Il dolore è vivo, acuto, dirompente ma si congiunge con la volontà e la forza di reagire.

Andromaca ha perso tutto ma non la dignità umana che la eleva oltre un mondo maschile fatto di guerra, brutalità e violenza. Nell'Eneide infine, Virgilio ne completa il percorso. Ella ritrova la serenità accanto a Eleno, il guerriero-indovino fratello di Ettore.

Andromaca è un personaggio particolare. Nei vari autori sembra davvero evolversi dalla figura di donna debole e inconsolabile a quella di eroina coraggiosa e risoluta. Ma a ben leggere, questi ultimi due tratti erano presenti fin dall'Iliade, dal famoso libro VI. Omero potrebbe con Andromaca aver quasi reso omaggio, in modo soave e non troppo marcato, (considerando i tempi), alla stupenda complessità dell'universo interiore femminile? Mi piace pensare di si...

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • "I Miti Greci" di Robert Graves, Longanesi (2018).
  • "Iliade", edizione Bur-Rizzoli (1999).

Eros, il dio dell'amore

Il dipinto "Giovinetta che si difende da Cupido" è di William-Adolphe Bouguereau (1880)Il dipinto "Giovinetta che si difende da Cupido" è di William-Adolphe Bouguereau (1880)


Nel dipinto dell'accademico francese Bouguereau, "Una giovane ragazza che si difende da Eros", vediamo un capriccioso bambino alato tentare di pungere una fanciulla con una freccia.

Il Dio greco dell'amore è rappresentato come un paffuto amorino, tema "iconografico" molto diffuso dal Rinascimento in poi, (con opportune distinzioni tra il putto/Eros e il putto/angioletto), ma già in uso nella Grecia classica tra i poeti satirici e nell'arte ellenistico-romana.

Nell'immaginario comune e diffuso questa raffigurazione fanciullesca di Eros, una sorta di simpatico e curioso birbantello armato di frecce con la punta a cuore, ha sottratto valenza a una divinità piuttosto antica e particolare. Il poeta greco Esiodo (700 a.C.) lo considera tra le prime quattro divinità comparse all'alba dei tempi.

Nei Misteri Orfici, dall'unione di Eros con il Caos sarebbe scaturita la razza umana. Possiamo affermare che le fonti più antiche mostrano Eros come un dio primordiale delle origini, persino di comparsa pre-greca, il cui culto presentava probabilmente aspetti misterici ed esoterici.

Molti studiosi ritengono che Eros fosse adorato più come un concetto astratto di amore fisico, di desiderio o di aspirazione alla bellezza che come personificazione di una divinità. Una teoria che sembra cozzare col fatto che fin dall'arcaismo fu raffigurato nell'aspetto di un delicato efebo alato.

Nei secoli il mito di Eros subì un vero e proprio stravolgimento: egli divenne il figlio di Afrodite e Ares, il frutto di una relazione clandestina narrata da autori e poeti in varie versioni, satira compresa. All'atletico giovane che portava una lira o un arco, si affiancò il paffuto bambino alato, spesso bendato, che provocava scompiglio tra gli Dèi e i mortali con una mal celata crudeltà.

Lo vediamo a capo di frotte di "Erotes" (Amorini), compagni di giochi spesso al seguito dei cortei dionisiaci. Gli venne attribuita una sola storia d'amore, quella con Psiche (Apuleio) di cui parlerò in seguito. Nel mondo greco-romano, il Putto, inteso come rappresentazione di Eros bambino, fu un soggetto decorativo molto utilizzato in pitture, sculture e nell'arte funeraria (sarcofagi).

Nel contesto della religione cristiana, questa figura divenne una rappresentazione simbolica degli angeli già nell'arte paleocristiana per proseguire con successo nel Rinascimento e nell'arte barocca.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • Il dipinto "Giovinetta che si difende da Cupido" è di William-Adolphe Bouguereau (1880).
  • "I Miti Greci" di Robert Graves, Longanesi (2018).

Estia (Vesta), dea del Fuoco Sacro e del Focolare Domestico

Estia (Vesta), dea del Fuoco Sacro e del Focolare Domestico


Figlia primogenita di Crono e di Rea, Estia è sorella di Zeus, Hera, Poseidone, Ade e Demetra. È considerata tra gli Dèi più importanti dell'Olimpo seppur compaia in pochissimi miti. Estia è la Dea del focolare domestico.

Il suo nome si riconnette con la radice ues- "bruciare, risplendere" perché il simbolo di questa divinità è appunto il fuoco. Il fuoco di Estia non è quello che erutta dalle viscere della terra, che arroventa e fonde il metallo dominato dalla maestria di Efesto, ma è il fuoco che riscalda, che cuoce il cibo, che accoglie le offerte agli Dèi, dunque è il fuoco che assicura la vita stessa e che ogni famiglia custodisce e alimenta con impegno e dedizione.

Una fiamma nobile e pura come la Dea che lo presiede. Estia infatti è la Dea casta e illibata, colei che chiese per se stessa l'eterna verginità rifiutando le nozze offertele da Poseidone e da Apollo. Zeus stabilì che Estia fosse presente in tutti i templi e in tutte le case dell'uomo e che ogni sacrificio agli Dèi doveva aver principio e fine con un'offerta a Estia.

Per questo motivo Estia non ha bisogno di allontanarsi dall'Olimpo per vagare nel mondo. Ella è ovunque, in ogni dimora e in ogni luogo sacro. La santità del focolare è una tematica cara a tutti i popoli dell'antichità. Il focolare circolare è il centro religioso e vitale della famiglia, lì dove si celebra il culto domestico e si accolgono gli ospiti.

Rapportando il concetto di famiglia alla tribù, alla patria, alla città-stato, ritroviamo il focolare pubblico, il cui fuoco sacro è custodito sempre e unicamente da Estia. Un fuoco perenne che non va mai spento, che arde per l'eternità assicurando in tal modo il benessere e la sopravvivenza della comunità.

La greca Estia traslò nella romana Vesta. Nell'Urbe, nel tempio a lei dedicato, le vergini Vestali avevano cura del fuoco perenne. Dal 9 al 15 Giugno, la Dea era celebrata nelle Vestalia, una festività di antichissima memoria. Il fuoco sacro di Roma veniva rinnovato il primo marzo di ogni anno. Fu spento per sempre dopo secoli, nel 391 per volere dell'imperatore Teodosio perché considerato un culto pagano.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • La scultura "Hestia Giustiniani" è conservata al Palazzo Torlonia (Roma). La fotografia è pubblicata con Licenza Creative Commons da Wikimedia.
  • "La religione romana arcaica", Georges Dumézil, Bur (2017).
  • "I Miti Greci", Roberto Graves, Longanesi (2018).
  • "Almanacco Pagano. Festività e miti dell'Antica Roma", Pandemia, MacroEdizioni (2004).

Giuturna, la ninfa delle fonti

Giuturna, la ninfa delle fonti


Giuturna è una ninfa delle fonti appartenente alla mitologia romana. Virgilio nell'Eneide la considera figlia di Dauno e sorella di Turno, re dei Rutuli. Giuturna è stata amata da Giove; dal padre degli Dèi ha ricevuto l'immortalità e il dominio sui corsi d'acqua.

Ella spinse il suo popolo a rompere la tregua con i troiani, arringando l'esercito dopo aver assunto l'aspetto del defunto Camerte, valoroso signore di Amyclae. Tentò in tutti i modi di salvare il fratello dall'esito avverso del duello con Enea. Disperata, fu costretta a farsi da parte, rispettando il volere di Giove.

Il culto di Giuturna si attestò in origine nell'antica Lavinium per poi giungere a Roma in età monarchica. Nell'Urbe divenne la divinizzazione di una sorgente collocata nel Foro, vicino la casa delle Vestali: il "Lacus Iuturnae" era ritenuto miracoloso.

Nel 241 a.C. le venne dedicato un tempio nel Campo Marzio in seguito alla vittoria di Lutazio Catulo contro i Cartaginesi nella Battaglia delle Isole Egadi. Il nome "Giuturna" potrebbe derivare da "Turno" o da "iuvare" (aiutare).

Sembra che in origine fosse "Diuturna", che significa "durevole", probabilmente in riferimento all'eternità dello scorrere dell'acqua di sorgente. Nel corso dei secoli Giuturna perse i connotati della dea per assumere quelli della ninfa.

La ritroviamo sposa di Giano, (legato simbolicamente alle fonti), e madre di Fons, Dio maschile delle fonti. Le feste "Iuturnalia" ricadevano l'11 Gennaio. In quel giorno era propizio visitare una sorgente per gettarvi un fiore.

Si scongiurava in tal modo la siccità, (dal latino "siccus", col significato di secco, arido), legata all'assenza di pioggia ma anche al cattivo esito di imprese e affari che si intraprendevano nel corso dell'anno.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • "La religione romana arcaica", Georges Dumézil, Bur (2017).
  • "Almanacco Pagano. Festività e miti dell'Antica Roma", Pandemia, MacroEdizioni (2004).

Iside, Dea Madre del matrimonio e della fertilità

Iside, Dea Madre del matrimonio e della fertilità


Nel I secolo a.C. a Roma fu introdotto il culto della Dea Iside. Ella proveniva dal pantheon egizio, onorata come Dea della maternità e della fertilità, moglie di Osiride e madre di Horus.

Apuleio ci spiega nelle "Metamorfosi" che l'Iside che si diffuse nel mondo ellenistico e in quello romano fu intesa come una sorta di Dea Madre, spesso assimilata alla stessa Hera/Giunone o a divinità femminili importanti quali Cibele, Demetra e Cerere. Anche nei nuovi ambiti fu comunque considerata simbolo del matrimonio e dell'essere madre.

Il culto di Iside fu misterico, ovvero legato al mondo ultraterreno. Nell'Urbe trovò seguaci tra le matrone dell'alta società. Le istituzioni capitoline tentarono di ostacolarne la diffusione e già nel 65 a.C. un altare dedicato a Iside sul Campidoglio venne distrutto per ordine del Senato.

Anni più tardi, Cesare su impulso di Cleopatra ordinò l'edificazione di numerosi templi consacrati alla Dea. Il triumviro Marco Antonio, successivo amante della regina tolemaica, incentivò ulteriormente il culto che venne tuttavia bandito da Roma in seguito alla battaglia di Azio (31 a.C.).

Augusto lo relegò al di fuori del pomerio mentre Tiberio fece abbattere il tempio della Dea, gettandone la statua nel Tevere; i sacerdoti di Iside e gli adepti vennero perseguitati. Da Caligola in poi la situazione mutò; Iside fu definitivamente accettata nel pantheon romano.

Gli imperatori della dinastia Flavia enfatizzarono il suo culto, considerando Iside, (al pari di Serapide), una protettrice del loro regno. La grande Dea fu onorata di templi, santuari e proprie festività assumendo un'importanza pari a quella di Giunone e di Minerva, divinità tradizionali della religione antico-romana.

Nel 380 l'editto di Tessalonica, firmato da Teodosio, proibì i culti pagani in tutto l'impero a favore del Cristianesimo. Nel 391 ad Alessandria, "patria" del culto di Serapide, associato come marito a Iside (al posto dell'antico Osiride), venne incendiato il Serapeum.

Nel 536, Giustiniano ordinò la chiusura dell'ultimo tempio pagano ancora in attività nel mondo romano... era proprio il tempio di Iside nell'isola di File sul Nilo. A detta di studiosi quali Witt, Benko e in forma minore McGuckin (storico della Chiesa), diversi tratti dell'antica Dea confluirono nella figura della Maria Vergine.

Dagli epiteti "Madre di Dio" e "Regina dei Cieli" all'iconografia: Iside che tiene in braccio il figlioletto Horus ricorda infatti l'immagine di Maria con il piccolo Gesù. La discussione tra gli storici in merito al rapporto tra Iside e la Madonna è ancora aperta. Si tende a escludere comunque che elementi propri del culto di Iside siano confluiti nel Cristianesimo, limitando la questione a un assorbimento superficiale della figura di Iside in quella di Maria, limitato alla sola iconografia.

A cura di Andrea Contorni

Note e bibliografia:
  • "Mitologia e dèi dell'Antico Egitto" di Massimo Dall'Agnola, Ferrari-Sinibaldi (2010).
  • "Initia Isidis. L’ingresso dei culti egiziani a Roma e nel Lazio", Filippo Coarelli, Agorà & Co. (2019).